martedì 14 dicembre 2010

L'uomo e la maschera

Stavolta una precisazione è assolutamente necessaria. Nel campo della danza sono un "absolute beginner" (come direbbe Bowie) e questa non ha la minima pretesa di essere una recensione: ciò che scriverò di seguito è solo frutto di sensazioni personali delle quali mi piacerebbe rendere partecipi i miei (pochi) lettori, e che probabilmente mostrano una fragilità evidente agli occhi di chi ne sa di più. 
Ciò nonostante...

Dal 30 novembre al 5 dicembre, al teatro Vascello di Roma, è andato in scena "Pulcinella, opera per danza e maschera" di Aurelio Gatti, con la compagnia di danza MDA, attiva stabilmente dagli anni settanta, sempre sotto la guida del maestro Gatti.
"Pulcinella" (la cui prima messa in scena risale a circa 10 anni fa) è un lavoro incentrato sulla figura di un uomo che, all'interno di un magazzino pieno di scatoloni abbandonati, viene a contatto con quattro figure di Pulcinella tra loro complementari, ed un'inquietante bambola meccanica. L'uomo farà quindi esperienza delle sfaccettature dei Pulcinella, in una sorta di viaggio che rimanda a temi assoluti di vita e di morte, alla ricerca del significato delle cose e in primis del tempo. Nel finale l'uomo troverà risposta divenendo anche lui simile a Pulcinella.
La scenografia è costruita attorno agli scatoloni che inizialmente contengono i personaggi, ma che poi si trasformano in tanti modi, persino in nave o in tribunale!
I movimenti dei sei personaggi sono per lo più corali: gli spazi individuali sono raramente solistici. Ne risulta quindi uno spazio scenico sempre dinamico, in ogni angolo del palco. E indubbiamente la conformazione del teatro aiuta a vedere bene questi movimenti, grazie al boccascena all'altezza della prima fila. Mi colpisce poi come ogni movimento dei singoli sia collegato e sincronizzato in un'azione collettiva, dove lo stile rimanda frequentemente ai gesti tipici del mimo.
Da sottolineare la bellezza delle musiche (opera di Marco Schiavoni) che riescono a fondere atmosfere partenopee e rimandi etnici. Il tema principale della colonna sonora è di quelli che ti trovi in testa ancora a distanza di giorni e si lega bene al campionamento della voce del Pulcinella del Gianicolo, con la quale sono cresciute generazioni di romani (come me).
Le identità dei danzatori-Pulcinella sono completamente nascoste dalle maschere e dai costumi ed è bello scoprire solo nel saluto finale che si tratta di donne di varie età ed esperienza, ma tutte ugualmente brave: Gianna Beduschi, Gioia Guida, Marica Zannettino e Carlotta Bruni. Molto brava anche Luna Marongiu nel ruolo della bambola, che a dispetto della meccanicità dei gesti riesce bene ad esprimere la drammaticità e la cupezza del personaggio. E poi Aurelio Gatti...: pur essendo il danzatore che si muove meno, è indubbiamente il motore dell'intero lavoro. La sua è una presenza magnetica che amalgama, gestisce e comunica. 
Una gradevolissima messa in scena che ho avuto il piacere di vedere ad una esibizione pomeridiana, nella quale ho notato molti  ragazzi: un gran bel modo di avvicinarsi al mondo della danza, direi. Anche per me.
Fotografie di Lucrezio de Seta

mercoledì 10 novembre 2010

Il sostenibile peso dell'oscurità


Fino a qualche settimana fa non sospettavo neanche dell'esistenza di Ólafur Arnalds. Poi all'improvviso mi imbatto nel video "Hægt, kemur ljósið" (Lentamente, la luce viene) su YouTube e scopro che di lì a poco sarà in concerto a Roma. Parte la caccia in rete alla scoperta dell'artista islandese e scopro che mi piace da matti.
Ólafur Arnalds nasce come batterista in un gruppo metal, genere con grandi tradizioni nei paesi scandinavi, ma dal 2003 è un pianista che pubblica album a proprio nome e che suona avvolto da un'aura di malcelato mistero. Il mistero è in parte dovuto ai titoli in islandese dei propri brani, alle atmosfere un po' oniriche e alla poca abitudine a mostrarsi in foto o in video.
Insieme a qualche amico coraggioso decido di scoprire la dimensione live del nostro amico che si presenta insieme ad un quartetto d'archi al Circolo degli Artisti (ingresso a offerta!).

Apre la serata il gruppo rock alternativo-sperimentale dei Kruk: un trio di giovanissimi romani che si cimenta con brani propri di talvolta anche interessanti, ma con qualche problemino di accordatura degli strumenti che li penalizza immeritatamente.
Finalmente arriva sul palco Ólafur accompagnato dalle 4 ragazze che compongono il quartetto di impostazione classica (2 violini, viola e violoncello). Il lungo ed esile pianista ci introduce timidamente nel suo mondo musicale fatto di strutture minimali e ripetitive con dinamiche dilatate nelle quali si alternano crescendo/diminuendo. Nel secondo brano (mi scuso ma non sono riuscito ad imparare nessun titolo in islandese) entra in scena anche un musicista dedito alla gestione di campionamenti ed effetti. La progressione dei brani lascia sempre più spazio alla interazione piano / elettronica, accompagnandosi con una serie di disegni animati in bianco e nero proiettati sullo sfondo, nei quali ricorrono immagini di uccelli stilizzati e alberi scheletrici. La scena è allestita con gusto minimale lasciando disseminate a terra lampade ad incandescenza che contribuiscono ad un clima più intimo e fiabesco.
Ólafur è bravo e il pubblico numeroso applaude convinto, tra un brano e l'altro. Pian piano si scioglie anche la naturale timidezza del compositore islandese che si sorprende per la compostezza poco italiana e si instaurano anche brevi scambi di battute con il pubblico ("Are you the kind of audience that screams for every thing I say? ... and if I say Berlusconi?").

L'ora abbondante di concerto vive un momento di particolare intensità durante il brano "3055" (questo l'ho capito...) tratto dall'album d'esordio "Euology for Evolution", nel quale si sviluppa un intenso crescendo d'archi ipnotico e affascinante. Bellissimo.
Personalmente mi sembra di cogliere in Arnalds molti riferimenti musicali ed artistici: partendo da una sensibilità estetica alla 4AD, fino a maestri come Pärt e Nyman, fino a recenti esperienze come Whitetree e Autechre. Eppure, nonostante i suoi 23 anni, Ólafur ha personalità forte abbastanza da distinguersi da ogni riferimento e creare un proprio universo musicale, che potrebbe portarlo davvero lontano.
Al termine del concerto riesce a concedere soltanto un bis al piano, prima di partire col bus a due livelli per Budapest, dove suonerà la sera seguente.
Un concerto che mi è piaciuto moltissimo e che mi spinge ad acquistare una copia dell'ultimo album "... and They Have Escaped the Weight of Darkness", ma che evidentemente è piaciuto anche al nostro Ólafur, visto che il giorno dopo scrive su facebook: "Thank you Rome! Most pleasant surprise of the tour so far! Did no expect to play for a packed Circolo degli Artisti of amazing people!"


Grazie a Donnigio per le foto del concerto

domenica 1 agosto 2010

Il diario notturno di Ludovico


Nell'afosa estate romana è arrivata d'improvviso una folata di aria fresca. Ludovico Einaudi infatti torna a Roma per la parte finale del tour "Nightbook", che proprio da qui è partito con l'anteprima mondiale per poi tornare anche nello scorso dicembre.
L'ambientazione stavolta è quella della Cavea, lo spazio all'aperto nell'Auditorium Parco della Musica, ed il concerto è inserito nel bellissimo cartellone della rassegna "Luglio suona bene".

La struttura può accogliere fino a 3000 persone ed è tutta esaurita. Pubblico quanto mai eterogeneo come età, ma anche come approccio: sono evidenti gli appassionati che conoscono a memoria il repertorio di Einaudi, ma anche persone che sono qui perché fa tendenza (riconoscibili dai firmatissimi abiti da sera).
Quando tutti hanno preso posto mi accorgo di un folto numero di persone che essendo rimaste senza biglietto si sono sedute sui gradini dell'area bar subito dietro il palco.
Calano le luci e parte un loop di piano campionato (The Planets), che evidenzia uno degli aspetti più importanti nelle sonorità di Nightbook: il rapporto del piano con suggestioni elettroniche (magnificamente guidate da Robert Lippok).
Einaudi è sul palco con cinque musicisti di bravura e versatilità impressionanti: più di tutti mi colpisce Mauro Durante che suona i tamburelli fondando su di essi una ritmica coinvolgente, ma all'occorrenza passa allo xilofono o al violino, ma anche gli altri non sono da meno: il giovane Federico Mecozzi che alterna violino, chitarre acustiche ed elettriche e basso; Antonello Leofreddi alla viola ed il violoncellista Marco Decimo che all'occorrenza suona anche uno xilofono.

Nella seconda parte del concerto resta solo il piano di Ludovico Einaudi per la parte più intimista di questo "diario notturno" che però torna a godere di tutto l'ensemble per il finale caratterizzato da un impressionante crescendo. Straordinarie sono le interpretazioni di "Lady Labirinth", "Berlin Song", "The Tower" e l'incandescente "Eros" che lo stesso maestro torinese ha definito "una sorta di rito pagano" nel quale si è rapiti dall'estasi di passione di un amore assolutamente sensuale.
Applausi forti e convinti con molti spettatori che acclamano a gran voce (sì, anche il sottoscritto) riuscendo ad ottenere un bis con il gruppo al completo. Al termine nuova ovazione (stavolta in piedi) ma a quanto pare non c'è possibilità di ulteriore bis. Mentre parte del pubblico inizia ad uscire, un sostanzioso gruppo (sì, anche il sottoscritto) continuano imperterriti a reclamare un ultimo regalo, che arriva puntuale: torna il solo Einaudi che si congeda con una struggente "Le onde", che (non mi vergogno a dirlo) mi provoca un attimo di commozione. Anche Einaudi sembra colpito dall'affetto del pubblico e si porta varie volte la mano sul cuore, mentre si inchina per ringraziare.
La presenza di varie telecamere fa sperare che un evento di questa portata e di questa intensità sia stato ripreso e possa quindi essere trasmesso in tv. Me lo auguro, soprattutto per chi non c'era.
Live photos courtesy Teresa (forum www.ludovicoeinaudi.com)

giovedì 22 luglio 2010

Mitici mistici



Ogni tanto mi capita di dire "ho ascoltato un album bellissimo: il mio personale disco dell'anno". Poi in realtà arrivo a dicembre con almeno una decina di "dischi dell'anno". Ad ogni modo il nuovo album dei Baustelle "I Mistici dell'Occidente" entra a pieno titolo nella categoria.
Il gruppo di Montepulciano è giàtra le mie preferenze da qualche anno, ma devo dire che l'ultimo lavoro tocca livelli di pienezza e maturità ai quali neanche speravo potessero arrivare.

Il merito è indubbiamente di una vena compositiva particolarmente felice ed di una produzione certosina curata dal celebre Pat McCarthy (già tecnico del suono dei R.E.M.) insieme al cantante Francesco Bianconi. E' proprio sul fronte dei suoni e degli arrangiamenti che il disco mostra appieno i livelli eccellenti raggiunti dal gruppo.
Già sul precedente "Amen" avevamo apprezzato una ricchezza strumentistica che raramente ritroviamo in altri lavori nazionali, ma in questa occasione i Baustelle si superano, orchestrando strumenti di ogni tipo, ricorrendo (con gusto) ad elettronica e campionamenti, giocando con le melodie e le citazioni (su tutte Morricone ne "La canzone della rivoluzione"). Eppure il riferimento che mi salta maggiormente all'orecchio è più che altro un approccio, una mentalità. Si potrebbe parlare infatti di una sensibilità musicale alla Battiato, dove la ricerca del suono e delle melodie (alcune davvero contagiose) si sposa con testi curatissimi ed intelligenti.
Per quanto mi riguarda, il disco è di una compattezza granitica, non perde mai quota dall'inizio alla fine. Lo ascolto senza soluzione di continuità, arrivando a scoprire continuamente cose nuove grazie alla straordinaria ricchezza di musica e parole. Bellissimo.Trascinato da veri e propri hit come "Gli spietati" e "Le rane", il disco fa il giro di tutte le radio, divenendo (sorpresa?) disco d'oro in brevissimo tempo: e mi torna alla mente un'episodio analogo per il rock italiano, quando nel 1997 i C.S.I. raggiunsero il primo posto di vendite con "Tabula rasa elettrificata".

I Baustelle, però, non li ho ancora mai visto dal vivo. Molte delle referenze che mi arrivano non sono buone, ma li ho visti due volte in tv e non mi sono affatto dispiaciuti. Decido quindi di approfittare del concerto romano a Capannelle, in ticket con Nina Zilli.
Nina è una recente acquisizione della musica leggera nazionale, che si muove nei canoni del soul tradizionale della Tamla Motown. Difficile pensare a qualcosa di più diverso dai Baustelle. Proprio la bella Zilli apre il concerto, con un'ora di brani sicuramente piacevoli, anche se il meglio viene fuori quando esce dal ruolo un po' forzato da Aretha dei colli piacentini (anche il foulard nei capelli...) e si lascia contaminare da reggae e dub.

Ma io sono lì per i Baustelle, che finalmente (dopo un estenuante cambio palco) iniziano a suonare. I primi brani risultano penalizzati da livelli sballati nel mixer, peccato. Un po' ne risente anche il gruppo, che addirittura, al quarto brano ("San Francesco"), rischia di smarrirsi davvero: la ritmica e la voce di Bianconi sembrano andare per conto proprio. Terribile.
Allora avevano ragione i detrattori delle loro performance dal vivo?
Valutando il prosieguo del concerto direi di no. Il fatto è che i Baustelle amano arrangiamenti ricchi e orchestrazioni estremamente complesse, si presentano in otto(!!!) sul palco, e se la tecnologia di amplificazione non è perfettamente calibrata ... ecco che si rischiano le figuracce.
E infatti quando finalmente i tecnici audio riescono a riprendere il controllo del mixer la storia cambia.
Nel frattempo sono già state sparate le hit ("Le Rane" e "Gli Spietati"), ma il livello dei brani proposti continua ad essere altissimo e pesca soprattutto negli ultimi tre lavori.

Picchiano forte i Baustelle, eccome! E il pubblico ricambia con calore, eccome! Due ore serratissime nelle quali appare un po' sottotono la voce di Rachele (l'umidità?), mentre Francesco Bianconi sembra davvero a proprio agio come riferimento per gli altri musicisti. Davvero impressionante il lavoro delle chitarre, che dispensano ondate di potenza e perizia. Si riascoltano volentieri "La guerra è finita", "Colombo", "Charlie fa il surf", la vecchia "EN" e la bellissima "Il sottoscritto".
Ci si diverte sul palco e anche sotto, tanto che al termine le richieste di bis sono particolarmente intense: a questo punto (alla seconda chiamata in scena) arriva una vera gemma in regalo. Una dedica speciale alla città che ospita il concerto, che viene fatta nel presentare una variante studiata nel pomeriggio: la celebre "Piangi Roma" (clone del finale di "Passaggi a livello" di mastro Battiato!!!) viene preceduta da "Nun je dà retta Roma" (eccellente la pronuncia romanesca), a suo tempo portata al successo da Gigi Proietti. Brano attuale come non mai, col quale Bianconi auspica un "nuovo risorgimento" per questo Paese.
Nell'attesa, io mi accontento di questo "risorgimento" per il rock d'autore italiano.

sabato 10 aprile 2010

Dai diamanti non nasce niente


Dal 24 febbraio al 30 maggio, Roma ospita (al Museo Dell'Ara Pacis) la mostra dedicata a Fabrizio De André, intitolata semplicemente "Fabrizio De André - La mostra".

Ne avevo sentito parlare bene in occasione del primo allestimento presso il Palazzo ducale di Genova. Bel modo per festeggiare i 70 dalla nascita, mi sono detto, e con l'occasione vado a far visitare l'altare della pace augustea ai miei pargoli.
Infatti dopo aver visto il monumento (che è lì da 2020 anni) e la nuova struttura che lo contiene (che è lì da 10 anni), scendo al piano interrato dove si svolge la mostra sul cantautore che più di ogni altro ha segnato la mia sensibilità poetica negli anni dell'adolescenza.
Tutto si svolge nella penombra, per far risaltare le scelte di un allestimento fortemente caratterizzato dalle proiezioni. Ma la maniera in cui sono disposti gli schermi della prima sala non facilita affatto i visitatori, a meno che non siano in numero inferiore ai venti (impensabile, visto il pienone da stadio). E quindi ci si ostacola nel cervellotico ping pong da un lato all'altro di schermi trasparenti, con un audio contemporaneo di quattro filmati che rendono il tutto caotico.

I video sono molto belli, realizzati con spezzoni di canzoni, interviste e riproduzioni di testi originali, ma sono sacrificati sull'altare di installazioni scenografiche belle quanto scomode. E poi l'audio: si da per scontato che la musica sia importante in queste mostre, e invece i diffusori piatti utilizzati hanno la dinamica di una radiolina!!!
Cerco invano un segnale che indichi nel buio la tenda nera da cui entrare nella seconda parte della mostra e indovino al terzo tentativo. Un corridoio largo un metro e mezzo ospita dei fantastici tavoli interattivi sui quali posare una copertina di LP, la quale viene riconosciuta da un sensore. A questo punto partono filmati relativi all'album relativo. Peccato che così si crei una lunga fila di persone con disco in mano in attesa del proprio turno.
Il corridoio prosegue con bacheche contenenti i cimeli: i 45 giri di ogni edizione, i master e gli acetati della Ricordi, quaderni di appunti autografi, pagelle scolastiche (anche cinque in italiano!!!) e persino un pianoforte sul quale Fabrizio ha composto alcuni dei primi brani. Emozionante.

Si passa poi alla sala dei tarocchi dove brevi video illustrano i personaggi della poetica di De André, basandosi sulle carte disegnate da Pepi Morgia per la scenografia del tour de "Le nuvole". Anche qui gli organizzatori danno il meglio di sé: non essendo previsto alcun posto a sedere ci si adatta come si può su sgabelli di fortuna, qualcuno prova a sedersi per terra per non disturbare la visione delle persone che stanno dietro, ma il celere servizio d'ordine gli impone di rialzarsi: bisogna lasciare vuoto il centro della stanza!
Sinceramente irritato vado nell'ultima sala in fondo. Una sala dove si proietta un mega video di 5 ore curato da Vincenzo Mollica sulla base degli archivi Rai. E' gremita all'inverosimile ed i posti a sedere sono pochissimi in confronto all'affluenza dei visitatori: le persone si calpestano, spingono, inciampano nel buio. Resisto a questa follia solo il tempo necessario per vedere (si fa per dire) "Il pescatore" suonata con la PFM. ...'Fanculo...
Non vedo l'ora di uscire ed imbocco l'ultimo corridoio che vede dei banchi ottici montati su cavalletto nei quali il visitatore può inserire delle lastre fotografiche che fanno partire filmati che descrivono 25 momenti della vita del Faber. Ma scivolo oltre... con un senso di fastidio.
Sinceramente una mostra del genere meritava una ambientazione migliore. Possibile che gli organizzatori non abbiano previsto che su De André non si può realizzare una mostra "per pochi intimi"?

lunedì 15 febbraio 2010

Sei anni con i Bellowhead


Gli inglesi hanno sicuramente molte pagine di storia per le quali chiedere scusa al mondo: basterebbe citare tra i tanti Margaret Thatcher e i Teletubbies. Hanno però altrettanti validi motivi per tenere alta l'attenzione sulle proprie tradizioni. Devono aver pensato a questo i Bellowhead nel dar vita al loro progetto musicale. Sarebbe fuorviante però pensare al gruppo in questione come ad una band di nostalgici giovanotti alla riscoperta delle radici del folk inglese. Grazie ad un intrico di citazioni e contaminazioni varie (dai Pogues a Milton Nascimento), la miscela assume personalità e gusto del tutto unici.
Gli undici componenti provengono da differenti esperienze, ma grazie alla regia del duo John Spiers e Jon Boden che nel 2004 i Bellowhead muovono i primi passi. Il duo ha anche un'attività parallela a proprio nome che ad oggi ha già prodotto 5 dischi.
L'anno seguente vincono il premio BBC Folk Award come miglior band e pubblicano l'ep "E.P.onymous", a cui fa seguito nel 2006 l'incredibile album d'esordio "Burlesque".
Gran parte dei brani sono canzoni della tradizione britannica dell'800, ma l'operazione non potrebbe essere più fresca e vitale, cancellando ogni possibile patina di formalismo da musicologo e innervando gli arrangiamenti con soluzioni estrose e coinvolgenti.
I Bellowhead iniziano un'intensa attività live che li porta in tutta la Gran Bretagna con puntate in Olanda e soprattutto in Canada. L'album viene acclamato ovunque e la popolarità inizia a crescere fino al culmine della tournée con un concerto allo Shepherd's Bush Empire, che diviene successivamente un bellissimo dvd. La scelta di esibirsi per lo più in piccoli teatri, si abbina magnificamente all'atmosfera (evocata già nel titolo dell'album) tipica del teatro burlesque vittoriano.
Nel 2008 esce il nuovo album "Matachin" che prosegue sulla stessa strada, ma riporta negli arrangiamenti ulteriori venature di stampo gitano e balcanico, con echi di esperienze già intuite dall'indimenticabile Penguin Café Orchestra.
Anche qui i consensi non mancano, merito anche della giocosità diffusa nelle tracce dell'album. Si divertono, i Bellowhead, e si sente. Il serio musicologo oxfordiano dà il meglio di sé dopo qualche pinta o, meglio, qualche bicchierino (Whiskey is the Life of Man). Persino lo strumentale Trip to Bucharest (unico brano non tradizionale) riesce a tramettere l'ironia di un viaggio disastroso ed un concerto annullato. Ad ogni ascolto l'album sembra migliorare e credo di averlo davvero consumato in quest'ultimo mese.
Sono ormai padroni della scena e generosi intrattenitori in concerti appassionanti: la BBC4 gli affida addirittura uno special natalizio nello scorso dicembre (rintracciabile come torrent negli archivi dimeadozen.org) con tutti i musicisti e gli spettatori che sembrano usciti da un racconto di Dickens.
A questo punto siamo davanti ad una delle migliori formazioni inglesi degli ultimi anni: con un undici così, l'Inghilterra potrebbe anche vincere i mondiali.