giovedì 17 aprile 2014

Alla corte del Doppio Trio

L'ultima volta che ho visto i King Crimson era il '96 e a quanto pare a fine anno si riformeranno sotto la guida dell'inarrestabile Fripp... ma quella è un'altra storia.
The Crimson ProjeKCt in realtà è una deviazione dal progetto originario (evidenziato dalle maiuscole KC del nome), uno "spin-off", direbbero gli sceneggiatori di una serie tv; nasce dal fatto che tre degli attuali Crimson siano coinvolti in progetti sperimentali paralleli: gli Stick Men di Tony Levin e Pat Mastelotto (insieme a Markus Reuter) e l'Adrian Belew Power Trio (con Julie Slick e Tobias Ralph che affiancano il celebre chitarrista). In passato c'erano stati altri ProjeKCt (ben sei) ma tutti annoveravano la presenza di Robert Fripp, stavolta no e qualcuno sui giornali ha valuto definire sprezzantemente questa formazione come una "cover band".
Questo progetto nasce esclusivamente per concerti dal vivo, nei quali propongono una miscellanea di brani dei King Crimson suonate in una formazione a sei (simile a quella degli anni '90) e di brani delle due band in trio. Il tour europeo sta avendo sold-out ovunque ed il primo aprile siamo pronti per la data romana all'Auditorium Parco della Musica.
Anche stavolta (capita un po' troppo spesso ultimamente...) il pubblico è stagionatello, ma d'altra parte i crimsoniani della prima ora acquistarono l'album d'esordio (In the Court of the Crimson King) nel 1969: quarantacinque anni fa! Io stesso sono qui con mio figlio quindicenne...
Prima dell'inizio faccio in tempo a procurarmi un official bootleg del 2012, una foto autografata da tutti sei e a fotografare le pedaliere degli effetti dei quattro suonatori di corde elettriche (non sia mai mi riuscisse di riprodurre suoni almeno simili).
La sala Sinopoli è gremita quando alle 21 e 15 si spengono le luci ed entra Markus Reuter che imbastisce un soundscape intitolato "Sultry Kissing Lounge", con la sua touch guitar autocostruita. E' evidente l'insegnamento del maestro Fripp, ma Reuter riesce ad esprimere una forte personalità, che sfocia in "B'boom" con l'ingresso degli altri musicisti. Insieme alla successiva "THRAK", sono la manifestazione del suono più noise e sperimentale dei Crimson fine secolo, ed i fonici sono messi a dura prova nel bilanciamento degli strumenti. Il buon Mastelotto rompe almeno un paio di bacchette, ma anche gli altri ci danno dentro alla grande in un quarto d'ora iniziale davvero impressionante.
La prima "canzone" è "Dinasaur" da Discipline, meraviglioso album dell'81 che rappresenta la scintilla del mio innamoramento con Fripp & soci. La voce di Belew forse è meno tagliente di un tempo, ma l'arrangiamento del brano è tra i picchi della serata. Seguono meraviglie con "Frame by Frame" e "Sleepless" che da sole varrebbero il biglietto. A questo punto escono i tre Stick Men lasciando il palco al Power Trio che dopo due brani ricambiano la cortesia. E' forse la parte meno interessante del concerto, anche se si fa notare il brano "Crack in the Sky (Spiraglio nel cielo)" che Tony Levin canta e presenta in italiano.
Si torna alla formazione a sei ed arrivano nell'ordine: "Larks' Tongues in Aspic, Part 2", "Three of a Perfect Pair" e la splendida "Matte Kudasai". Un ben di Dio che precede una nuova alternanza: prima Power Trio e poi ancora Stick Men. Questi ultimi propongono anche una versione (bizzarra) della suite "L'uccello di fuoco" di Stravinskij.
La scaletta del finale vede i sei riunirsi per "One Time", "Red" e "Indiscipline". Scansioni ritmiche tostissime e tortuosità chitarristiche, vocalità sognante e arrangiamenti vertiginosi: il regno del Re Cremisi continua ad affascinare e divertire.
Impossibile sottrarsi ad un bis richiestissimo (anche se qualcuno già guadagna l'uscita...). Belew esce da solo per "The Court of the Crimson King" solo voce e chitarra, accompagnato dal coro del pubblico. Commovente anche se prescindibile. E poi tutti sotto il palco per "Elephant Talk" e "Thela Hun Ginjeet" (che invece aveva aperto il concerto del '96).
Si chiude così dopo due ore e mezzo, con Tony Levin che scatta foto al pubblico e un divertito Belew che stringe con affetto le mani dei fans in prima fila.
... niente male per una "cover band"!
Photo by Tony Levin

lunedì 31 marzo 2014

E' stato un tempo il mondo...

Sono passati venti anni da quel 19 gennaio 1994. Ricordo nitidamente il primo ascolto di quello che potrei definire uno degli "album della vita".
All'epoca a Roma c'erano almeno tre botteghe di dischi che bazzicavo con regolarità: non c'era internet  e i dischi un po' di nicchia si andavano a cercare nei negozi specializzati. 
Quel pomeriggio, da Revolver, che era vicino a viale Trastevere, cercavo tra i cd usati quando ascoltai le prime note di "Celluloide" diffuse dall'impianto del locale. Voce profonda che mi ricordava qualcosa ... un basso martellato e pieno ... chitarre distorte ma con gusto. Chi sono? chiedo. Il commesso mi allunga la custodia in digipak sulla quale spiccano gli occhi inquietanti (ed inquieti) di Giovanni Lindo Ferretti. Consorzio Suonatori Indipendenti... ma che razza di nome è? Poi parte "Del mondo": nessun dubbio, preso.
Io i CCCP del primo periodo li reggevo poco, negli anni '80 io adoravo i Litfiba, i Diaframma (epoca Miro Sassolini), i Moda (di Andrea Chimenti) e i Violet Eves (Nicoletta Magalotti, voce meravigliosa, dove sei?). Nel '94 però non avevo più alcuna band italiana di riferimento, perché ormai sciolte o oppure svaccate come i Litfiba stessi. Quel pomeriggio, con Ko de mondo, avevo ritrovato la vita nel rock italiano ed infatti l'ho riascoltato un milione di volte: ancora oggi, dopo vent'anni, finisce spesso nel mio lettore cd.

In Bretagna
Anche la storia della realizzazione dell'album è molto interessante. I C.S.I. nascono dalle ceneri dei CCCP-Fedeli alla linea, che già nell'ultimo album (Epica Etica Etnica Pathos) avevano mostrato uno straordinario cambio di rotta e di sonorità, grazie all'arrivo dei tre toscani: Gianni Maroccolo (vero cuore musicale dei Litfiba), Giorgio Canali e Francesco Magnelli. Con loro il duo emiliano originario Ferretti-Zamboni trova completezza e organicità. Se ne resero conto tutti e capirono che bisognava far partire un progetto nuovo, nel quale tutti e cinque alla pari potessero rifondare il rock cantato in italiano.
Per scrivere e registrare Ko de mondo bisognava andare in ritiro e, quasi monasticamente, condividere vita e lavoro per alcune settimane tra agosto e settembre '93. La scelta cadde su una località bretone, Finistère, nome apocalittico evocante i concetti di fine della terra e di una dimensione altra. C'è un documentario molto interessante, girato dal fantomatico C.R. Rossmann, che testimonia la genesi dell'album.
La lune du Prajou
Musicalmente è un album granitico, nel quale tutte le parti sono consonanti e stanno bene insieme. Si parte con "A tratti" che ribadisce l'ultima chiamata per chi vuol salire a bordo: chi c'è c'è e chi non c'è non c'è. Si passa attraverso il quasi-rap di "Palpitazione tenue" per giungere alla geniale "Celluloide": un brano scioglilingua creato mettendo di seguito titoli di film. "Del mondo" rappresenta la quintessenza dell'intero album: suoni rotondi e morbidi su cui le chitarre disturbate creano graffi e ferite. Ferretti procede in un cantato che a tratti è salmodia, riflette sulla natura umana, prega e, in fondo, spera.
Arriviamo così a "Home sweet home", sorta di manifesto programmatico de I dischi del Mulo, l'etichetta creata dall'anima emiliana del gruppo che produce i quegli anni Üstmamò, Acid Folk Alleanza ed altri. La successiva "Intimisto" palesa la grande influenza del canto monastico (se non proprio gregoriano) nello stile di Ferretti e sfocia nella magnifica "Occidente", dolente e nervosa considerazione sulla nostra civiltà. Un delicato giro di basso e piano introduce la angosciata "Memorie di una testa tagliata" con cui la guerra dei Balcani irrompe cupamente nella musica dei C.S.I.: sarà poi in Linea Gotica che il tremendo conflitto diverrà protagonista (in "Cupe Vampe" ad esempio). Senza soluzione di continuità si giunge a "Finistère" che sembra un completamento della precedente: Annus orribilis in decade malefica, decade malefica i stolto secolo, secolo osceno e pavido, grondante sangue e vacuo di promesse. Il dolore sembra stemperarsi nella quasi strumentale "La lune du Prajou" (con la voce di Ginevra Di Marco, futura C.S.I. a tempo pieno, nonché moglie di Magnelli). Il titolo è ripreso dal nome del manoir bretone nel quale il disco fu registrato.
E' la volta della bellissima "In viaggio" che apre squarci ritmci e melodici guidati dal magnetico ritornello "Viaggiano i viandanti, viaggiano i perdenti, i più adatti ai mutamenti, viaggia Sua Santità". Ma il viaggio volge al termine. A conclusione del disco, una delle più belle ballate circolari di sempre: "Fuochi nella notte (di San Giovanni)". Si tratta di una jam corale ... "Così vanno le cose, così devono andare", che sembra cantata attorno ad un falò in un crescendo di partecipazione collettiva, che nel finale riprende il verso "chi c'è c'è e chi non c'è non c'è" dalla prima traccia, quasi un invito a ricominciare da capo l'ascolto.
Raccolgo l'invito.

lunedì 3 febbraio 2014

Restiamo umani


Lo scorso 30 gennaio, a quasi un anno dall'uscita dell'album Human, i Radiodervish si sono esibiti alla Sala Petrassi dell'Auditorium di Roma. Non sono pochi i motivi di curiosità per questa tappa dello Human Live Tour.
Innanzitutto perché non li ho mai visti dal vivo, se non nell'incarnazione Bandervish, e poi perché l'ultimo disco l'ho trovato un po' interlocutorio, dopo gli splendidi L'immagine di te (del 2007) e Beyond the Sea (del 2009). Tra le altre cose la serata è anche in supporto dell'encomiabile UNRWA, agenzia dell'ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.
I Radiodervish si presentano con una formazione a quattro: i fondatori Nabil Salameh (voce e bouzouki) e Michele Lobaccaro (basso, contrabbasso e chitarra), Alessandro Pipino (ormai in pianta stabile alle tastiere, fiati e quant'altro), accompagnati da Pippo Ark D'Ambrosio (batteria e percussioni). 
L'inizio è un po' in sordina: c'è qualcosa di slegato nei suoni e Pipino si allontana brevemente alla prima pausa. In realtà si manifesta ben presto la poca integrazione della batteria col resto della band, sia come sonorità che come arrangiamenti delle percussioni. A parte questo aspetto, legato magari ai gusti personali di chi scrive, i Radiodervish stabiliscono rapidamente un contatto, un feeling con il pubblico.
La scena, sobria, è arricchita da un bella regia delle luci integrata con le proiezioni (davvero molto belle) curate e realizzate da Valerio Calsolaro.
I brani in scaletta sono un mélange di composizioni vecchie e nuove, caratterizzate come sempre dalla forte contaminazione culturale, di lingue e di genere. Momenti particolarmente forti sono "L'immagine di te", accompagnata dal coro a bocca chiusa del pubblico che al termine tributa un lunghissimo applauso, e "Velo di sposa", uno dei brani migliori dell'ultimo CD. Presentando quest'ultimo, Michele Lobaccaro racconta brevemente la tragica storia dell'artista milanese Pippa Bacca alla quale è dedicato il brano. Molto bella anche la versione dal vivo di "Istanbul" e "Lontano", struggente storia di migranti. E poi "Junoon", "Erevan", "In fondo ai tuoi occhi" e la cover partenopea "Tu si' na cosa grande".
La voce di Nabil stasera sembra ancor più calda del solito, il suo canto suadente ammorbidisce le morbide atmosfere di "Les lions", "L'esigenzae "Centro del mundo"
Una nota a parte merita il ruolo di Alessandro Pipino nella band, che assomiglia sempre più a quello di Thistlethwaite nei Waterboys, dei quali ho parlato due mesi fa: può suonare di tutto, dalle tastiere al flauto dal piano giocattolo alla fisarmonica, arricchendo di sfumature il suono del gruppo. Prezioso.
Il concerto si chiude con la toccante dedica a Vittorio Arrigoni prima di "Stay Human". Ma c'è tempo di spellarsi ancora le mani con i bis prima di un congedo davvero ricco di calore ed affetto.

mercoledì 15 gennaio 2014

Mistero comico

La comicità è arte sopraffina: non si impara a scuola eppure non può prescindere dai grandi maestri. E' questo ciò che mi frullava in testa uscendo dal Teatro Olimpico, dopo aver visto "Il mistero dell'assassino misterioso" con Lillo e Greg.
La commedia scritta nel 2000, andò in scena in tutta Italia per tre anni ed ha avuto molte rappresentazioni con altri interpreti e persino una versione in spagnolo. Si tratta di un tipico schema di giallo all'inglese, ambientato in un'aristocratica dimora popolata da familiari infidi, servitù ambigua ed un investigatore dalla logica inappuntabile. Una storia che può far ricordare Cluedo e L'ispettore Barnaby. Il gioco di Lillo e Greg (un po' come ne "La baita degli spettri" visto la primavera scorsa all'Ambra Jovinelli) consiste proprio nel demolire ogni stereotipo sul tema, inserendo stavolta anche imprevedibili dinamiche e divertenti rivalità tra gli attori di una compagnia teatrale.
Tanti hanno utilizzato in passato gli schemi classici della suspense per effettuare le parodie (dal "Frankenstein Junior" di Mel Brooks all'Ispettor Clouseau di Peter Sellers), ma la bravura degli autori sta proprio nel cercare una via propria, scavata nel solco dei "maestri". La cifra stilistica tipica di Lillo e Greg, con giochi di parole, equivoci e trovate visive surreali, si trova perfettamente a proprio agio con l'ambientazione e la eccellente recitazione degli altri attori.
E' infatti una commedia molto più corale di quanto ci si possa aspettare, con i bravissimi Vania Della Bidia e Danilo De Santis, collaboratori di lunga data, oltre alla divertente Dora Romano. Anche il regista Mauro Mandolini fa parte della squadra consolidata dalla attività teatrale degli ultimi quattro anni. Tutto questo contribuisce alla fluidità complessiva, priva di tempi morti e dai ritmi elevati.
Il pubblico si diverte davvero e alla pomeridiana sono presenti spettatori di ogni età.
Lillo e Greg si confermano una delle poche realtà davvero comiche, in un panorama di battutisti dal respiro corto, figli dei tanti contenitori televisivi.

mercoledì 18 dicembre 2013

Le piace Brahms?

Torno all'Auditorium a distanza di pochi giorni dal concerto di Nick Cave and the Bad Seeds, ma stavolta in un contesto del tutto diverso. Grazie ai biglietti miracolosamente procurati dalla mia signora, partecipo alla serata diretta da sir Antonio Pappano nella quale spicca il concerto per violino e orchestra di Brahms.
Va detto che nella Stagione Sinfonica dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia l'età media del pubblico è straordinariamente alta, ma ciò che più sorprende, prima dell'inizio, è l'apparente indifferenza dei partecipanti, abituati ad incontrarsi lì più per frequentazione mondana che per vero interesse. Uno sparuto gruppo di giovani alle mie spalle parla ad alta voce del campionato NBA (speriamo tacciano durante il concerto...), ma tremo davvero quando capisco che la decrepita signora con toupet (di scuola Moira Orfei) è diretta nel posto davanti al mio...
Pappano ha allestito una bella scaletta stasera: si comincia con la celebrazione dei 150 dalla nascita di Pietro Mascagni con "Visione lirica. Guardando la S.Teresa del Bernini nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma", che venne eseguita la prima volta nel 1923 a Roma (con la stessa Orchestra di Santa Cecilia diretta proprio da Mascagni). Si tratta di una composizione bellissima nella sua brevità (cinque minuti), in cui è davvero notevole la frase cantabile dei violini.
In aggiunta (vista la brevità del brano) Pappano decide di regalare un apprezzatissimo "Intermezzo" tratto dalla "Cavalleria rusticana", non incluso nel programma della serata.
La serata prosegue con un'altra celebrazione per i 10 anni dalla morte di Goffredo Petrassi. L'esecuzione del "Magnificat" vede anche l'arrivo del soprano mantovano Anna Maria Chizzoni insieme al coro dell'Accademia di Santa Cecilia. La composizione alterna fasi decisamente coinvolgenti ad altre che personalmente apprezzo meno. Tra i momenti migliori i percorsi coristici particolarmente interessanti, che rimandano ad altra musica del '900 e non necessariamente in ambito classico (alcune colonne sonore di Philip Glass e, perché no, i cori in "Atom Heart Mother" dei Pink Floyd). Meno apprezzabile invece la soprano, che non sembra a proprio agio con i passaggi iniziali della propria parte. 
Dopo un quarto d'ora di pausa arriviamo al piatto forte della serata: il "Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 77" di Johannes Brahms.
Si tratta di una composizione dalla suddivisione classica, Allegro-Adagio-Allegro, nella quale il compositore di Amburgo volle inserire forti contenuti virtuosistici alla partitura del violino. Ecco perché il nome di Leonidas Kavakos, che qui è di casa dal 2005, suggerisce grandi aspettative: il quarantaseienne violinista greco è ormai considerato uno dei più grandi violinisti, in compagnia del suo Stradivari del 1724.
L'esecuzione si dimostra ben presto memorabile per la straordinaria compattezza dell'orchestra che ormai ha un feeling perfetto con Pappano e riesce ad esprimere ogni sfumatura di una direzione che tende a smussare gli eccessi. Scelta apprezzabile soprattutto in virtù delle caratteristiche di un violinista come Kavakos. Il violino si eleva a protagonista assoluto, esaltando un carattere a tratti gitano, brillante ed eccessivo. Ma con gusto. Fa impressione riuscire a sentire trilli e colpi d'archetto dalle sembianze quasi jazzistiche, sospinti da una velocità d'esecuzione rara nell'Allegro giocoso che chiude il concerto.
Pubblico entusiasta che, giustamente acclama lo straordinario binomio Pappano-Kavakos, che ringrazia eseguendo come bis un'estratto dal terzo movimento. Bravissimi.




venerdì 6 dicembre 2013

Alla corte del Re Inchiostro

E' la carica dei cinquantenni da queste parti. Stavolta tocca ai mitici Nick Cave and the Bad Seeds, il 27 novembre, all'Auditorium Parco della Musica.
Anche per loro si tratta di colmare una mia grave lacuna, poiché mi dicono da più parti che si tratta di una performance imperdibile.
"Imperdibile" è un aggettivo che da tempo viene affibbiato un po' a tutto, tant'è vero che ormai è da considerare talmente abusato da non trasmettere particolari emozioni. Eppure...

Per questo concerto, nella serissima e grandissima Sala S.Cecilia, avevo trovato gli ultimi due biglietti un paio di mesi fa, e arrivando ci si rende conto del gran pienone. L'orario previsto è alle 21, ma entrando in sala con un certo anticipo trovo già il palco occupato da una cantante che si sta esibendo in piedi mentre suona un harmonium. Si tratta di Shilpa Ray che ha appena pubblicato un e.p. dal titolo esplicito: "It's All Self Fellatio". La sua è una musica che hanno definito "gothic burlesque", e per quanto le etichette lascino il tempo che trovano, definisce abbastanza il genere. La voce è davvero bella, ma alla lunga la dimensione sonora dell'accompagnamento al solo harmonium si dimostra un po' ripetitiva.

Nick Cave and the Bad Seeds
Si fanno attendere fino alle dieci meno un quarto, ma alla fine eccoli sul palco: Nick Cave & the Bad Seeds! Partono subito con "We No Who U R", singolo tratto dall'ultimo album "Push the Sky away". Bella e intensa come la successiva "Jubilee Street", con la quale il concerto si eleva a vette che si manterranno costanti per tutta la serata. Inizialmente il pubblico è ancora seduto e la scansione a spirale del brano innalza il livello emotivo ad ogni giro: qualcuno scandisce il tempo con le mani mentre il violino di Warren Ellis diventa sempre più ipnotico, altri iniziano ad alzarsi in piedi con gli occhi incollati a Cave che si muove sul palco come una fiera imprigionata. E poi... e poi anche il nostro Nick esplode in un salto improvviso verso la platea (date un'occhiata al video). E' la scintilla che rompe ogni regola, non ci sono più posti assegnati: tutti intorno al cantante che inizia a camminare sugli schienali delle poltrone, l'unico limite è rappresentato dalla lunghezza del cavo del microfono. I Bad Seeds costruiscono un muro di suono perfettamente arrangiato e la straordinaria acustica della sala permette di coglierne le sfumature. E' la volta di una cattivissima "Tupelo", tratta da "The Firstborn is Dead" del 1984, nella quale ho apprezzato una straordinaria sezione ritmica: dominata da Barry Adamson ritornato al basso nel centro del palco dopo tanti anni, e con Thomas Wydler alla batteria e Jim Sclavunos, che si alterna fra percussioni e xilofono. Dopo "Red Right Hand" (del '94) con una istrionica serie di movenze da rockstar consumata, tocca ad una struggente "Mermaids" (tratta dall'ultimo album) che Nick canta abbracciato ad una ragazza del pubblico.
Nick Cave
Con "The Weeping Song" (una delle mie preferite da sempre) si torna dalle parti del repertorio classico del gruppo (notevoli i ricami del canuto Conway Savage alle tastiere e di George Vjestica, che è alle chitarre nella parte europea del tour), suggellato dalla antica "From Her to Eternity", selvaggia come non mai.
Il ritmo forsennato dell'inizio lascia il passo alle atmosfere più introspettive derivanti da "The Boatman's Call" del '97. Gli occhi degli spettatori sono incollati a King Ink e alla sua band, impegnati nel rito della celebrazione del concerto rock: tocca alla tenue "West Country Girl", la ballata pianistica "People Ain't No Good" che sfocia nella malinconica "Sad Waters" (che è l'unica tratta da "Your Funeral... My Trial" dell'86) e "Into My Arms" nella quale Nick abbraccia il pubblico con una voce che è un insieme di tenerezza, calore ed emozione.
Non ce ne rendiamo conto ma si va verso l'epilogo, non prima di una fantastica "Higgs Boson Blues" seguita da "The Mercy Seat". Si chiude con la nervosa e potente "Stagger Lee" presa dalle "Murder Ballads" e l'ipnosi quasi messianica di "Push the Sky Away"a metà tra inno dell'anima e melodia salvifica.
Impossibile accontentarsi qui. Siamo ancora tutti talmente esterrefatti per il livello qualitativo del concerto che la richiesta dei bis è tutto tranne che una formalità. Dopo qualche minuto tornano sul palco per quattro brani i cui titoli già dicono tutto ad ogni conoscitore della band: "God is in the House" per piano e violino, "Deanna", l'elettro-acustica e coinvolgente "Papa Won't Leave You, Henry" con una signora-fan che sale sul palco in tailleur (!?) e la conclusiva "We Real Cool" con una nuova incursione sul palco: stavolta è un fan che è invitato a duettare (che emozione...) dal nostro Cave, ma che invece rivela una ben stridula vocina. E qui si chiude per davvero: due ore di concerto tiratissime nelle quali ho apprezzato un leader in piena forma che non si è risparmiato neanche un istante, ed una band di livello assoluto, che mostra la via del rock (quello vero) a tante proposte più recenti.
Dicevamo "imperdibile" all'inizio? Beh, non troverei aggettivo migliore per una performance con tanto cuore, pathos, tecnica e, non dimentichiamolo, canzoni bellissime.

NB: i brani sottolineati aprono un link su YouTube con registrazioni tratte da questo concerto. Le foto fin qu©Musacchio & Ianniello, possono essere utilizzata esclusivamente per l' avvenimento in oggetto o per pubblicazioni riguardanti la Fondazione Musica per Roma. La foto sotto è dalla pagina Facebook di Nick Cave.
Nick Cave prima del concerto a Roma

lunedì 25 novembre 2013

25 anni fa

Chiarisco subito che il titolo non si riferisce al tempo che è passato dal mio ultimo post... anche se in effetti ho trascurato un bel po' queste pagine virtuali.

25 anni fa usciva l'album "Fisherman's Blues" dei The Waterboys. Era un compendio di due anni di sessions (dal 1986 al 1988) da cui scaturirono circa 100 brani registrati! Un disco meraviglioso già all'epoca, che ha visto susseguirsi negli anni edizioni sempre più estese che includevano gioielli non inclusi nella prima tiratura. Il mese scorso è uscita una ristampa colossale che include ben 6 CD (prezzo popolare, meno di 25€), mentre per i maniaci è stata realizzata la versione 7 CD (il settimo contiene alcune fonti di ispirazione per la band) + 1 LP (la ristampa dell'album originale in vinile). Il disco risulta uno straordinario mix di musica tradizionale scozzese, blues e country music, che non si finirebbe mai di ascoltare e che per me è stato la colonna sonora di tante giornate.
Durante le registrazioni di The Fisherman's Blues
Per festeggiare un album così particolare, i nostri eroi si sono riuniti sotto la guida di Mike Scott, il leader di sempre, ed hanno organizzato un tour che il 21 novembre scorso è arrivato a Roma, all'Auditorium Conciliazione, intitolato "Fisherman's Blues Revisited".
Riesco così a colmare la mia lacuna di non aver mai assistito ad un concerto dei Waterboys. La serata è in tema con la water del nome, infatti arrivo sotto un diluvio colossale, anche se i nostri non sono più tanto boys... Il pubblico anche è un po' attempato e la sala mostra parecchi spazi vuoti nel mezzo.
Il quasi cinquantacinquenne Mike Scott è decisamente in forma e la voce è sempre la solita: bellissima ed espressiva come (e più) di un Dylan delle highlands. Si alterna chitarrista e pianista con una freschezza ed una passione che contagiano la platea. Dopo un avvio un po' in sordina anche il pubblico partecipa con altrettanta passione. L'antica intesa con Steve Wickham (violino), Anthony Thistlethwaite (fiati e mandolino) e Trevor Hutchinson (basso e contrabbasso) si vede e si sente, come anche si nota lo straordinario supporto di Ralph Salmins (batterista negli ultimi due anni).
Mike Scott
Si parte con "Strange Boat" e poi la cover "Sweet Thing" di Van Morrison. Dopo l'inedita "Higherbound" si inseguono le note sull'onda dei ricordi: "A Girl Called Johnny" dall'album d'esordio, scritta 32 anni fa. Più avanti è la volta di "When We Will Be Married?" e a metà concerto c'è la doppietta poderosa di "Raggle Taggle Gypsy" (sì, quella maltrattata in italiano da Branduardi con "Vai cercando qua, vai cercando là"...), seguita da "We Will not Be Lovers" ed il pubblico entusiasta che si spella le mani. E' un concerto che non dà pause e Mike Scott si concede anche breve racconto per spiegare come conobbe "I'm So Lonesome I Could Cry" di Hank Williams, della quale fanno una cover struggente e appassionata. Si va verso la conclusione e arrivano brani come "Don't Bang the Drum" e "Fisherman's Blues" che  lasciano senza parole per intensità e sembrano venire da una dimensione senza tempo, tipica solo dei grandi pezzi che non invecchiano mai e che potremmo riascoltare mille e mille volte. E' il momento dei bis richiesti a gran voce da un pubblico ormai in piedi: "You In the Sky" dalle sessions di cui sopra (ma che apparve su Book of Lightning vent'anni dopo!) e  la splendida "The Whole of the Moon". Conclude "Saints and Angels".
Una serata bellissima ad opera di vecchi leoni della musica britannica che hanno sempre messo al primo posto l'attività dal vivo. E si vede.

NB: i brani sottolineati aprono un link su YouTube con registrazioni tratte da questo concerto