Capita a volte di assistere ad un concerto ed avere una determinata sensazione, positiva o negativa, senza riuscire a mettere a fuoco a che cosa sia dovuta.
Stavolta invece mi era tutto chiaro. Fin dall’inizio.
Nella consueta cornice estiva della cavea dell’Auditorium (“Luglio suona bene”), Lou Reed si è presentato a Roma per l’ultima tappa italiana della tournée, intitolata significativamente “Power Rock Tour 2011". Il timore, tipico di questi casi, era quello di assistere alla tarda esibizione di una cariatide del rock: uno che ha iniziato con i Velvet Underground dell’epoca di Nico e di Andy Warhol (quarantaquattro anni fa!!), al centro di una scena newyorkese di cui oggi esiste ormai solo il ricordo.
La carriera del nostro si è poi dipanata come solista a partire dal 1972, tra alti memorabili e bassi sconfortanti (vedi "Metal Machine Music").
Passate le 21 e 30, il sole tramonta fra nuvoloni neri che minacciano pioggia. Lo spettacolo può avere inizio. Nel buio una torcia elettrica fa strada fino al centro del palco, dove Lou Reed viene aiutato ad imbracciare la fedele chitarra elettrica: “Who Loves the Sun”.
Ed ecco che parte un suono impressionante per dinamica, ritmo, tecnica e passione: è il rock, cazzarola, quello vero! Mi ripeto: assistere ad una performance del genere è impressionante, perché ormai i palchi sono pieni di finti rocker, replicanti che si atteggiano in acconciature di tendenza e pose legate all’immaginario del genere. Lou invece è rock, punto e basta. Anche se il fisico non è più quello di una volta, ha un’anima potente che si manifesta anche quando biascica nel microfono al limite della stonatura e strapazza le sei corde. E allora avanti con “All through the Night” e “Smalltown”. Quando è il momento di "Ecstasy" Lou Reed coglie l'occasione per dedicare il concerto ad Amy Winehouse, scomparsa due giorni prima.
E' una figura granitica quella del leader in mezzo al palco, che si rivolge alla band con continui cenni, per far capire che non si fa per finta, che la band non è fatta di turnisti fantoccio e che il leader vuole il massimo da ognuno di loro mentre li guarda, li guida, li riprende…
Il vecchio Tony "Thunder" Smith alla batteria è il perno che consente l'inserimento del resto della band che comprende le chitarre di Tony Diodore e Aram Bajaklan, il basso di Rob Wasserman, le tastiere di Kevin Hearn, i sassofoni di Ulrich Kreiger ed i gingilli elettronici pilotati da Sarth Calhoun.
E' una figura granitica quella del leader in mezzo al palco, che si rivolge alla band con continui cenni, per far capire che non si fa per finta, che la band non è fatta di turnisti fantoccio e che il leader vuole il massimo da ognuno di loro mentre li guarda, li guida, li riprende…
Il vecchio Tony "Thunder" Smith alla batteria è il perno che consente l'inserimento del resto della band che comprende le chitarre di Tony Diodore e Aram Bajaklan, il basso di Rob Wasserman, le tastiere di Kevin Hearn, i sassofoni di Ulrich Kreiger ed i gingilli elettronici pilotati da Sarth Calhoun.
Il concerto prosegue esprimendo memorabili versioni di "Mother", "Venus in Furs" (wow!!) e "Sunday Morning".
Quando dopo un'ora e mezza si chiude con "Sweet Jane" (wow-wow!!!!) sembra sia dura farli ritornare sul palco, ma alla fine i lenti passi di Lou lo riportano davanti ad un pubblico entusiasta per un bis di tre brani che culmina in una magica "Pale Blue Eyes".