venerdì 25 novembre 2011

Note dai climi freddi

Sono arrivato ad Agnes Obel leggendo una recensione sul Mucchio Extra, nella quale si faceva ammenda per aver ignorato l'album "Philarmonics" all'epoca dell'uscita (ossia nel settembre 2010). In realtà ben pochi possono dire di non averla mai ascoltata, visto che i suoi brani sono stati utilizzati in celebri spot (Nissan e Deutsche Telekom) ed in telefilm di grande ascolto (Grey's Anatomy).
Per registrare l'album d'esordio, la brava cantautrice danese ha impiegato sei anni (dal 2004 al 2010), ma il risultato finale è estremamente compatto ed omogeneo. Si percepisce una produzione eccellente che, come spesso accade, andrebbe verificata dal vivo, cosicché l'occasione del concerto romano al Palladium diviene irrinunciabile.
La serata (18 novembre) è nell'ambito della rassegna "Romaeuropa" e prevede anche due esibizioni di apertura ad opera di altri artisti provenienti da climi freddi: lo scozzese Martin John Henry ed i canadesi Evening Hymns. Entrambi nomi nuovissimi per me, costituiranno piacevolissime sorprese.

Martin John Henry
Martin John Henry, già leader dei Da Rosa, si esibisce da solo, accompagnandosi con chitarra acustica ed effetti. Si mostra semplice, divertito e cordiale e tra un brano e l'altro arriva a definirsi "un semplice turista che è lì per caso". I 5 pezzi sono davvero notevoli e sono tratti dal suo album solista appena uscito ("The Other Half of Everything" su Gargleblast); spiccano soprattutto la suadente "I Love Maps" e la bellissima cover di "Cody" dei conterranei Mogwai. All'uscita non posso fare a meno di comprare il CD: davvero molto bello.

Evening Hymns
Pochi minuti ed è il turno degli Evening Hymns, ovvero Jonas Bonnetta (voce, chitarra ed effetti, nonché unico membro permanente della band) e la bassista Sylvie Smith. Brani davvero coinvolgenti e ricchi di fascino, un po' Bon Iver e un po' Timber Timbre, ma con personalità spiccata e talento da vendere. Meriterebbero più spazio in un concerto tutto loro e non è detto che ciò non accada, visto il loro amore dichiarato per Roma, ben ricambiato in questa serata nella quale eseguono magnifiche versioni di "Dead Deer" e "Lanterns". Da tenere d'occhio.

Ed ecco il momento dell'artista principale. Agnes Obel si presenta accompagnata al violoncello dalla tedesca Anne Müller (che ha da poco pubblicato con Nils Frahm l'album "7 Fingers" su Erased Tapes) e dall'arpista scozzese Gillian Fleetwood.
Anne Müller e Gillian Fleetwood
Sorprendentemente la minuta Agnes non sembra troppo concentrata all'inizio, forse la lunghezza del tour comincia a farsi sentire, tanto che invece di partire col secondo brano in scaletta, ricomincia con quello di apertura ("Liana") fra la costernazione delle due colleghe di palco. Dal vivo emerge in particolare la timidezza dell'artista danese, che si trincera dietro al suo piano, parlando pochissimo, anzi lasciando spesso alle altre il compito di presentare i brani e comunicare col pubblico.
Ma è con la musica che la Obel si esprime al meglio: si susseguono tutti i brani dell'album, sempre intensi e coinvolgenti, con belle variazioni di arrangiamento rispetto alle registrazioni, probabilmente a seguito della intensa attività concertistica dell'ultimo anno.
Agnes Obel
Brillano le esecuzioni delle magnifiche "Just So" e "Beast", per non parlare dell'incanto nel quale il pubblico si immerge sulle note di "Riverside""Close Watch" invece è una cover (di John Cale) che rende merito anche all'abilità di arrangiatrice della nostra, mentre è la voce di "Brother Sparrow" che credo rimarrà indelebile nella mia memoria. Non mancano un paio di involontari siparietti: quando la Müller rompe l'archetto (avreste dovuto vedere l'espressione furente!) o quando la Obel non riesce ad aprire una bottiglietta d'acqua, fino a che uno spettatore sale sul palco per aiutarla ("I'm too weak..." si giustifica lei). I cento minuti di concerto scorrono via piacevolmente, tanto che al termine tornano sul palco due volte per i bis, che terminano, per ammissione della stessa cantante, perché il repertorio è terminato!
Forza Agnes, servono altri brani, bisogna quindi mettersi al lavoro per un nuovo disco... sperando che non ci vogliano altri sei anni!

sabato 30 luglio 2011

L'anima del rock

Capita a volte di assistere ad un concerto ed avere una determinata sensazione, positiva o negativa, senza riuscire a mettere a fuoco a che cosa sia dovuta.
Stavolta invece mi era tutto chiaro. Fin dall’inizio.
Nella consueta cornice estiva della cavea dell’Auditorium (“Luglio suona bene”), Lou Reed si è presentato a Roma per l’ultima tappa italiana della tournée, intitolata significativamente “Power Rock Tour 2011". Il timore, tipico di questi casi, era quello di assistere alla tarda esibizione di una cariatide del rock: uno che ha iniziato con i Velvet Underground dell’epoca di Nico e di Andy Warhol (quarantaquattro anni fa!!), al centro di una scena newyorkese di cui oggi esiste ormai solo il ricordo.
La carriera del nostro si è poi dipanata come solista a partire dal 1972, tra alti memorabili e bassi sconfortanti (vedi "Metal Machine Music").
Passate le 21 e 30, il sole tramonta fra nuvoloni neri che minacciano pioggia. Lo spettacolo può avere inizio. Nel buio una torcia elettrica fa strada fino al centro del palco, dove Lou Reed viene aiutato ad imbracciare la fedele chitarra elettrica: “Who Loves the Sun”.
Ed ecco che parte un suono impressionante per dinamica, ritmo, tecnica e passione: è il rock, cazzarola, quello vero! Mi ripeto: assistere ad una performance del genere è impressionante, perché ormai i palchi sono pieni di finti rocker, replicanti che si atteggiano in acconciature di tendenza e pose legate all’immaginario del genere. Lou invece è rock, punto e basta. Anche se il fisico non è più quello di una volta, ha un’anima potente che si manifesta anche quando biascica nel microfono al limite della stonatura e strapazza le sei corde. E allora avanti con “All through the Night” e “Smalltown”. Quando è il momento di "Ecstasy" Lou Reed coglie l'occasione per dedicare il concerto ad Amy Winehouse, scomparsa due giorni prima.
E' una figura granitica quella del leader in mezzo al palco, che si rivolge alla band con continui cenni, per far capire che non si fa per finta, che la band non è fatta di turnisti fantoccio e che il leader vuole il massimo da ognuno di loro mentre li guarda, li guida, li riprende…
Il vecchio Tony "Thunder" Smith alla batteria è il perno che consente l'inserimento del resto della band che comprende le chitarre di Tony Diodore e Aram Bajaklan, il basso di Rob Wasserman, le tastiere di Kevin Hearn, i sassofoni di Ulrich Kreiger ed i gingilli elettronici pilotati da Sarth Calhoun.
Il concerto prosegue esprimendo memorabili versioni di "Mother", "Venus in Furs" (wow!!) e "Sunday Morning".
Quando dopo un'ora e mezza si chiude con "Sweet Jane" (wow-wow!!!!) sembra sia dura farli ritornare sul palco, ma alla fine i lenti passi di Lou lo riportano davanti ad un pubblico entusiasta per un bis di tre brani che culmina in una magica "Pale Blue Eyes".
La sensazione finale è che esistono cose che non si imparano ed il rock è una di queste. Il rock è tutt'uno con la vita e non una moda: Lou Reed ed un'intera generazione sono ancora qui a dimostrarlo e a ricordarcelo. Grazie Lou.

mercoledì 6 luglio 2011

Scelsi... e conseguenze

Confesso. Sono un appassionato, estimatore, conoscitore e collezionista della galassia Franco Battiato, al limite della maniacalità. Ho iniziato circa 30 anni fa ad approfondire l'arte del musicista siciliano e da allora l'ho seguito anche in momenti non brillantissimi (la moscissima trilogia di "Fleur").
Spesso le strade che Battiato percorre risultano assai tortuose, come dimostra il suo cinema e la sue composizioni di musica classica. Altre volte invece sorprende per la propria "semplice profondità", come nelle canzoni pop e nelle sue opere pittoriche (per le quali si avvale dello pseudonimo Süphan Barzani).
C'è poi la nicchia che conosco (e capisco) meno: il Battiato sperimentale, quello degli anni settanta contaminato da dodecafonia e rumorismo. Però ultimamente sto cercando di approfondire maggiormente proprio questo aspetto e mi sono fatto invogliare dall'occasione della serata intitolata Pranam, dedicata alla musica di Gurdijeff e Scelsi, nella quale Franco Battiato ha presentato in prima assoluta la composizione "scelsi Scelsi".
L'ambientazione è la sala Petrassi nell'Auditorium di Roma ed il titolo della serata è "Pranam. Scelsi e Gurdjieff, la leggenda di due uomini straordinari". Inizia un duo composto da Anja Lechner (violoncello) e Vassilis Tsabropoulos (piano) che esegue musiche del maestro-mistico armeno. I brani scorrono piacevolmente, accompagnati in un caso anche da filmati in cui si riconosce Gurdjieff in una Francia anni '20. La tecnica dei due musicisti è impressionante e devo dire che la violoncellista tedesca ha un approccio allo strumento con tanta personalità da farmi venire voglia di andare a cercare altri suoi lavori: ne riparleremo.
Poi segue l'esecuzione della Suite n.9 "Ttai" di Giacinto Scelsi. Tre quarti d'ora nei quali mi sento come Alberto Sordi alla Biennale di Venezia nel film "Dove vai in vacanza?". Ma anche le persone accanto a me dopo una ventina di minuti di note al piano (apparentemente) sconnesse e casuali, mostrano segni di cedimento. Il maestro Carlo Guaitoli (da anni collaboratore di Battiato) sembra una marionetta che muove gli arti percorsi da spasmi aritmici. Ma questo è evidentemente dovuto alla mia ignoranza, visto che qualcuno riesce a capire anche quali sono le note finali ed esplode in un applauso convinto.
Poi tornano brevemente Lechner e Tsabropoulos, seguiti da una registrazione audio nella quale si ascolta una dichiarazione di Gurdjieff in francese sul senso del fare musica.
L'ultima parte è quella che più mi ha inquietato: Franco Battiato accompagnato al computer dal fido Pino Pischetola (Pinaxa per gli amici) suona una serie di effetti elettronici (chiamati "Scélsi Scèlsi") che hanno lo stesso appeal della suite appena ascoltata, ma il pregio di durare dieci minuti scarsi. Il mio amico Cesare ha commentato: "Sembrano due ragazzini che giocano con la PlayStation". 
Giocano? Forse è uno scherzo? Qual'è il confine tra una seria ricerca di musica d'avanguardia ed il giocare ad intellettualizzare?
Sempre pronto ad ammettere la mia ignoranza, ma stavolta ho sentito puzza di bruciato caro Maestro Battiato...

mercoledì 6 aprile 2011

Piano Piano

Torna a Roma Ludovico Einaudi.
Sempre all'Auditorium, ma stavolta con "The Solo Concert" nella bellissima Sala Santa Cecilia. I posti sono andati a ruba, letteralmente, e quando un paio di settimane prima mi presento alla biglietteria scopro con disappunto che sono rimasti solamente una ventina di posti liberi, non di più (la capienza è di circa 3000!!!). Mi accontento dell'ultima scelta: i posti del retropalco.
Arriva il 23 marzo ed insieme ad un caro amico ci presentiamo con una mezz'ora di anticipo scoprendo con positiva sorpresa che in realtà il retropalco (in questo frangente) è un posto fantastico: vicinissimi al pianista, con un angolo che ci permette di coglierne tutte le espressioni del viso ed un'acustica eccellente.
Fino a cinque minuti dall'inizio le persone in sala sono poche, ma all'improvviso i posti si riempiono, le luci si abbassano e il concerto può iniziare.
Einaudi propone una serata di solo pianoforte, motivo per il quale (nei giorni precedenti) avevo voluto ripassare soprattutto i brani di qualche anno fa. Invece resto sorpreso quando ascolto i primi pezzi eseguiti, tratti da "Nightbook" e "Divenire". Mai avrei immaginato che nell'arrangiamento "solo piano" potessero mantenere tale e tanta intensità ed emozione.
G.Segantini - Le cattive madri, 1894

Un'ulteriore chiave di lettura dell'universo compositivo di Einaudi, viene spiegata da lui stesso nell'unico intermezzo parlato.
Durante il concepimento dell'album "Divenire", infatti, confessa di essere stato colpito dalle opere di Giovanni Segantini. Il pittore tirolese, con il passare degli anni, ha cercato sempre più un senso di assoluto nelle proprie raffigurazioni dei paesaggi alpini, accentuando una tonalità di base quasi monocromatica. Ecco anche Einaudi ha svolto una ricerca analoga, ma in campo musicale. La ricerca di una tonalità base lo ha portato a scomporre le note del pianoforte nelle componenti attack-decay, accentuando proprio quest'ultima.
Be', sembrerà incredibile, ma di recente ha scoperto di poter ricreare anche dal vivo questo effetto, grazie all'ausilio del suo iPod! Ed eccolo lì il maestro torinese, che nel bel mezzo del concerto gira la rotellina del proprio lettore mp3 quasi fosse la naturale estensione della tastiera, conferendo alle proprie note una magica dilatazione.
Si susseguono brani di varie epoche: da "Snow Prelude" ad "Andare" passando per "Indaco", "Berlin Song" e "Fly". Si prosegue così in una bellissima atmosfera, appena disturbata da eccessi di tosse (qualche spettatore appare pronto per il sanatorio...) e dai troppi flash: il ragazzo alla mia sinistra ad esempio non si accorge del fastidio che provoca il suo autofocus, tanto che Einaudi interrompe l'esecuzione all'inizio de "I giorni" (ultimo bis) lanciandogli un'occhiata feroce.
Un concerto bellissimo ed emozionante di un artista di livello altissimo: sarà bello da ricordare nei giorni a venire, compiacendomi del fatto di esserci stato.
photo courtesy Teresa (forum www.ludovicoeinudi.com)

venerdì 11 febbraio 2011

Casa e bottega

Precisiamo subito: non si tratta di una mostra di pittura. 
"Caravaggio - La bottega del genio", allestita a Roma nelle sale quattrocentesche di Palazzo Venezia, è un laboratorio. Il tema è quello di riuscire a ricostruire come poteva essere strutturato l'atelier romano di un artista quale Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.
E' faccenda interessante, questa, sotto molti punti di vista. Una pittura così innovativa per l'epoca mostra anche espedienti tecnici particolari, soprattutto per le famosissime luci ed ombre, che oggi potrebbero essere realizzate grazie ad una progettazione di luce artificiale per sala pose, ma che a cavallo tra il XVI e il XVII secolo dovevano essere create (o immaginate!) mediante soluzioni illuminotecniche mai viste prima. Oltretutto il Merisi non ha mai avuto veri e propri allievi a cui poter insegnare la propria arte, in quanto la cosiddetta scuola dei "caravaggeschi" in realtà si ispirava solo allo stile delle sue pitture, ma non aveva alcuna derivazione diretta dall'artista.
Non essendoci testimonianze dirette, gli allestitori hanno basato le proprie ipotesi su commenti di contemporanei quali Mancini, Bellori ed altri, ma in particolare sull'atto di pignoramento del 1605 con il quale la padrona di casa si rivalse sul Merisi che non pagava l'affitto da 4 mesi. In quell'atto abbiamo conferma che presso il proprio studio il Caravaggio utilizzava specchi (addirittura c'era uno scudo a forma di specchio!).
La mostra quindi cerca di far capire proprio questo: quanto fossero legati tra loro gli studi sull'ottica e sul controllo della luce, con il modo di dipingere così realistico che rende ancora inimitabile il pittore lombardo.
Si inizia da una sala nella quale sono riprodotti i documenti di cui abbiamo parlato, per poi passare ad un ambiente dove viene ricreato un modello in vetroresina del "Bacchino malato" a dimensione naturale. Qui si evidenzia il ruolo dell'illuminazione proveniente dalla finestra e di come sia assai probabile che l'opera sia in realtà un autoritratto effettuato utilizzando uno specchio.
Si procede poi analizzando come Caravaggio possa aver sperimentato una camera oscura con foro stenopeico (come nelle macchine fotografiche) per riprodurre soggetti statici (es. "La canestra" di frutta), aiutandosi con lenti e specchi per mantenerne la scala e le proporzioni. Erano anni di straordinario fermento nello studio dell'ottica, anni nei quali Galileo stava per costruire sistemi ottici quali i telescopi che gli consentiranno di osservare le macchie solari. Una sala pertanto è dedicata proprio a ricreare una camera oscura.
La sezione successiva è da tuffo al cuore, per chi come me è innamorato di questo artista: viene ricreato l'intero set del dipinto di "San Girolamo scrivente" (anche questo in vetro-resina). Viene simulato un taglio di luce naturale che colpisce uno specchio concavo, con il risultato di un controllo dell'emissione luminosa "a spot" come siamo abituati a vedere oggi, soprattutto in ambito teatrale. La meraviglia non termina qui: viene posizionata una tela per trovare l'angolo nel quale abbia potuto lavorare Caravaggio, ma si scopre che sarebbe un punto troppo vicino al soggetto, che gli avrebbe fatto perdere la visione d'insieme. Basta però girarsi di 180° e mettere ad uno specchio sulla parete di fronte per trovarsi davanti l'opera così come la conosciamo oggi. Impressionante.
C'è poi un'ultima sala dedicata alle ricostruzioni: ecco "Medusa" (altro probabile autoritratto) che viene plasmata grazie ad uno specchio convesso (il famoso scudo a specchio?).
La visita termina in un locale dove viene ricreato lo studio del pittore utilizzando tutti gli articoli citati nel pignoramento di cui abbiamo detto all'inizio.

Gran bella mostra, dal significato didattico intenso e coinvolgente. La raccomando a tutti gli appassionati dell'opera caravaggesca, ma anche a chi si occupa oggi di lighting design e di illuminazione, magari partecipando anche alle conferenze parallele chi si tengono il martedì ed il giovedì pomeriggio.
La mostra è aperta tutti giorni dalle 10 alle 19 (tranne il lunedì) fino al prossimo 29 maggio.

martedì 1 febbraio 2011

Storie di Cavalieri e Mujahidin



"Per fortuna c'è la musica". Così esordisce Nabil Salameh davanti al pubblico della Sala Sinopoli all'Auditorium di Roma.
Nabil, insieme a Michele Lobaccaro, guida il progetto Radiodervish, da sempre dedito all'arte della commistione di generi, lingue e culture musicali. Le radici del gruppo sono equamente divise tra Puglia e Palestina, e si nutrono in un terreno fertile per accogliere ogni influsso che si spanda dal Mediterraneo.
Con il nuovo album intitolato "Bandervish", i Radiodervish hanno raccolto un'ennesima sfida, insieme al fido tastierista Alessandro Pipino: rivestire con arrangiamenti bandistici brani vecchi e nuovi.
L'idea nasce dall'incontro con il maestro e fisarmonicista Livio Minafra e coinvolge la Banda "Giuseppe Verdi" di Sannicandro di Bari. L'idea è in realtà meno bizzarra di quanto possa sembrare inizialmente. Ultimamente capita spesso di vedere artisti (quali Peter Gabriel, Sting, ma anche Franco Battiato, Carmen Consoli, Pippo Pollina, ...) che provano a dare maggior risalto al proprio repertorio mediante arrangiamenti per orchestre sinfoniche, con risultati invero molto diversi tra loro.
In questo caso i Radiodervish puntano sull'orchestra popolare per definizione: la Banda. L'intuizione (già manifestata da Jovanotti nel tour del 1997) si dimostra particolarmente felice ed il disco, pubblicato nel giugno scorso, si fa apprezzare particolarmente, tanto da meritare il tutto esaurito in una ribalta d'eccezione come il Parco della Musica di Roma.
Il concerto inizia con brano della Banda, diretta dal maestro Loiacono, che ci porta immediatamente in paesaggi sonori tipicamente meridionali, dopodiché inizia il vero e proprio racconto musicale di Bandervish: un viaggio che colpisce dritto al cuore per passione, sensibilità, bellezza. Un viaggio d'amore e sull'amore, quello che lega uomini e popoli, generazioni e idee, musiche e religioni.
Si susseguono storie e lingue che si mescolano tra loro, fino a diventare una cosa sola attraverso la straordinaria voce di Nabil ed i suoni evocativi dell'"orchestra del popolo". A partire da "Les lions" che sfiora quelle vite che sono costrette a lasciare l'Africa loro malgrado, passando attraverso la multietnica Gerusalemme di "Ainaki", alla programmatica "Centro del Mundo" e alla delicatezza di "Ti protegge". Significativa anche la scelta di due cover: un brano medievale andaluso ("una terra dove - ricorda Nabil - convivevano serenamente le culture cristiana, araba ed ebraica") ed il tradizionale iracheno "Fogh en Nakhal" (del quale qualcuno ricorderà la versione di Battiato a Baghdad).
Per quanto mi riguarda, riesco a stento a trattenere le lacrime durante una versione di "Tancredi e Clorinda" struggente e appassionata, nella quale risulta impossibile non farsi coinvolgere dall'amore impossibile e tragico descritto nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Qui però la storia non finisce con la conversione forzata del libro, ma si apre ad un amore che si sublima nel superamento della diversità. Indimenticabile.
Non mancano momenti più "leggeri", come quando il maestro Minafra (scalzo per l'occasione) invita il pubblico ad accompagnare l'inizio e la fine di "All My Will" facendo tintinnare le proprie chiavi! Il pubblico, che in parte è tipico da auditorium (ovvero molto compassato), inizialmente mostra una certa ritrosia a lasciarsi coinvolgere, ma si vedono anche signori di una certa età divertirsi ad accompagnare il brano con il mazzo di chiavi o con il battito delle mani. "Per fortuna c'è la musica".
E il pubblico apprezza questa musica intrisa di anime ed umanità. Davanti a brani dotati di una bellezza indiscutibile come "L'esigenza" o "L'immagine di te", che chiude il concerto, scrosciano applausi ed apprezzamenti convinti. Nabil si schermisce: "Grazie! Ma così ci viziate...".
E' un clima magico e senza tempo quello che si è creato e riesce difficile accettare la fine di un'esibizione dopo appena un bis: "Abbiamo finito i brani in repertorio, a meno di non ricominciare da capo..." sembra scusarsi Nabil.
"Per fortuna c'è la musica". E i Radiodervish.